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Sulle tracce della memoria: ricordando Walter Benjamin

Benjamin era, davvero, in tutto e per tutto, un uomo della vecchia Europa

walter benjamin

Lapide di Benjamin nel cimitero di Portbou

Walter Benjamin moriva poco più di ottant’anni fa, il 26 settembre 1940. Celebrarne la memoria è, oggi, più importante che mai. Non solo perché siamo in un’epoca di sovranismi e di rinnovata xenofobia, che spesso strizzano l’occhio alle tradizioni fasciste e totalitarie dei regimi di Hitler e Mussolini. Soprattutto, ma non soltanto tra i più giovani. Ma anche perché Walter Benjamin fu tra le figure veramente decisive del secolo scorso.

Disguidi della fama

La notte in cui perse la vita, Benjamin non morì di morte naturale. Ma suicida. Era in fuga dall’orco nazista che era sul punto di inghiottire l’Europa. Fu respinto al confine franco-spagnolo, in una piccola cittadina affacciata sul Mediterraneo, che si chiama Portbou. Per lui, ebreo e comunista, fu il segno della catastrofe definitiva.

La beffa è che i suoi compagni il giorno dopo passarono la frontiera, avviandosi verso la salvezza. Ma Benjamin – che era, davvero, in tutto e per tutto, un uomo della vecchia Europa – non avrebbe avuto, forse, la capacità di riadattarsi alla vita in America. Come fecero Brecht e Thomas Mann nonché i suoi sodali Adorno, Horkheimer e Arendt.

L’autore di testi incomparabili su Goethe, Kafka, la critica della violenza, il concetto di critica nel romanticismo tedesco, le origini del dramma barocco, l’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, il concetto di storia, era un essere unico, incomparabile e polimorfo.

Quel grande libro che è “Infanzia berlinese intorno al millenovecento” (ed. it. Einaudi), ne reca inequivocabile testimonianza. In altre parole, Benjamin sarebbe soffocato nel regno del capitalismo imperante a pieno regime, quale erano gli Stati Uniti di quegli anni.

La cornice del dramma

Di solito si capita a Portbou per caso. Importante snodo ferroviario, se dalla Francia si vuole proseguire per la Spagna, passando per la Catalogna e Barcellona. Così capitò allo scrivente, nel 1995, quando molti giovani, e noi con loro, erano impegnati nell’esperienza dei famosi inter-rail. Peregrinazioni ferroviarie per l’Europa, sostenute da biglietti a basso costo. Un’esperienza indimenticabile, naturalmente.

Come tutti i luoghi in cui gli abitanti sanno che vi si transita, per poi approdare altrove, Portbou è accogliente, ma senza esagerare. I punti informativi, i supermercati, i bar, i piccoli ristoranti, gli alberghi, persino il poliziotto locale, hanno un’aria selvatica, un po’ forastica.

Tornandovi dopo vent’anni, si scopre che i giovani continuano a fare le stesse cose che facevamo noi: sacco a pelo e ricerca di una spiaggia, dove passare gratuitamente la notte. E, dove, il giorno dopo, troveranno, a svegliarli, l’immancabile poliziotto locale.

Una memoria viva

I luoghi relativi a Benjamin, sono ormai organizzati in un percorso infra-cittadino, segno che esiste un piccolo pellegrinaggio di appassionati, che amano conservare la memoria di ciò che fu. Oltre al luogo in cui era ubicata la pensione in cui Benjamin trascorse l’ultima notte, ciò che resta di significativo ruota intorno al cimitero.

Qui, a picco sul Mediterraneo, si trova, prima dell’ingresso, una scultura dell’artista israeliano Dani Karavan, intitolata “Passages”. Il riferimento è alla grande opera incompiuta sui “Passages di Parigi” (ed. it. Einaudi) su cui Benjamin lavorò negli ultimi tredici anni della sua vita.

All’interno del cimitero una bella lapide, su cui alla maniera ebraica campeggiano sempre dei sassolini commemorativi. Sulla lapide è iscritta una frase tratta dalla VII delle Tesi “Sul concetto di storia” (ed. it. Einaudi), l’ultimissimo lavoro, scritto, sembrerebbe, come risposta al patto Hitler-Stalin del 1939. Essa dice: “Non è mai un documento della cultura senza essere insieme un documento della barbarie”.

Questo era, in nuce, Walter Benjamin. A Portbou, la luminosità mediterranea custodisce uno dei molti drammi dell’ebraismo tedesco.   

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