Testimonianze dal Kosovo: il ritorno
Si è conclusa l’esperienza umanitaria dei volontari di Sol.Id: il racconto di Elena
I volontari di Sol.Id si sono lasciati la terra serba alle spalle, ognuno di ritorno verso la propria città d’appartenenza.
Ma l’esperienza non è finita: in occasione dell’ultima serata insieme, quella di domenica, tutti si sono salutati con una promessa, quella di rivedersi presto, e di continuare ad interessarsi alla popolazione del Kosovo.
“Zagabria, Belgrado, Mitrovica, Brezovica, Sešice, Krajevo, il Patriarcato di Peč, i monasteri di Dečani e Gracaniča. Poi la piana di Kosovo Polje, dove svetta statuario il Gazimestan, posto in ricordo del sacrificio di tutta l’aristocrazia serba nel tentativo di respingere l’avanzata ottomana nel 1389 e protetto da una corona di merli neri, considerati la reincarnazione dei martiri. Ancora Mitrovica e l’ultima notte a Belgrado. Questo l’itinerario completo affrontato da Sol.Id, con due furgoni e tre macchine cariche di aiuti e la partecipazione di volontari da mezzo mondo: Italia, Francia, Finlandia, Repubblica Ceca e persino Brasile. Cittadini provenienti da diversi paesi, ma animati da un identico sentimento di solidarietà verso le famiglie serbe costrette nelle enclavi kosovare. Questa minoranza sempre più piccola, tristemente dimenticata da istituzioni locali ed internazionali, oggi può contare esclusivamente sul supporto del volontariato laico”. Così si legge nel comunicato finale diffuso da Sol.Id.
Come sottolinea Elena, una volontaria romana dell’Associazione umanitaria, “un ruolo determinante è stato svolto dai ragazzi del Partito Radicale Serbo”, che hanno accolto i ragazzi in missione, li hanno sostenuti e scortati. E – elemento non di poco conto – gli hanno consentito di mantenere un filo diretto con la popolazione che non sa parlare in inglese.
Durante il loro percorso, i volontari hanno incontrato anche Zvonko Mihajlovic, che dal 2008 al 2013 è stato presidente delle enclave serbe, “ovvero coordinatore dei diversi distratti in cui è suddivisa la parte a sud di Mitrovica”, come ci spiega Elena.
“Attualmente – continua – non svolge più alcun ruolo governativo, perché più volte si è opposto alla politica di Bruxelles”.
Ma al di là della gioia che un’esperienza del genere lascia nell’animo di chi la porta a termine, resta l’amaro. L’amaro per quello che si vede e di cui si è testimoni.
“La vita è povera – ci ha detto Elena – ridotta al di sotto dell’essenziale, soprattutto sotto il profilo igienico, anche nelle scuole, come in quella che abbiamo visitato a Bresovica. Per non parlare della salvaguardia dell’infanzia, capitolo tragico: ci sono bambini piccoli a piede libero un po’ ovunque”.
“La cosa che mi colpisce – ha sottolineato Elena – è il forte senso di nazionalismo, che anche le generazioni più giovani hanno ereditato”.
Da più parti, infatti, si leva sovente il grido: “Kosovo è Serbia”, come hanno raccontato i volontari stessi, a testimoniare il forte senso di identità di questa popolazione.
“Lo ripetono spesso – ci spiegano – come augurio ma anche come modalità di ringraziamento per il nostro operato”.
Questo motto, che è espressione di quel nazionalismo che diventa quasi caratteristica ereditaria, è accompagnato dalle 3 dita – che, a volte, sono unite. “Entrambi i simboli – racconta Elena – rappresentano la Trinità unita, un concetto tipicamente ortodosso”.
La religione della Serbia, infatti, è la religione cattolica ortodossa.
A proposito, piccola postilla. I monasteri sono da sempre obiettivi sensibili. Poche strutture sono sopravvissute fino ai giorni nostri; quelle che ci sono riuscite, sono dotate di particolari sistemi di protezione e sono presidiate militarmente. Ce lo confermano le testimonianze dei volontari.
“Sulle macerie dei monasteri distrutti, sono state erette delle moschee, esteticamente povere e spoglie, nulla a che vedere con le meravigliose moschee del vicino Oriente”.
“In qualche modo, si sta cancellando la loro identità – rispondo ad Elena – La cura nei dettagli di una chiesa, di una moschea, di un qualunque luogo di culto è uno dei modi con cui un popolo si esprime”.
“Sì – risponde – E se pensiamo che il popolo serbo si riconosce nella religione ortodossa che vantava testimoniante antichissime qui in Kosovo, significa che il Kosovo è davvero serbo. Insomma, questi monasteri andavano distrutti perché raccontavano troppo”.
“Oggi – continua Elena – tra i luoghi di culto maggiormente rappresentativi è rimasto il Patriarcato di Pec che, ancora oggi, è un obiettivo a rischio”.
“Sol.Id ha individuato nuovi obiettivi da raggiungere entro i prossimi sei mesi – conclude il comunicato dell’Associazione – e gettato le basi per la prosecuzione del suo impegno in Kosovo e Metochia”.
*tutte le foto sono scattate dai volontari in missione