The Italian Job, la Procura di Napoli ha le prove della frode elettorale Usa?
In mano ai Pm l’Affidavit dell’ex dipendente di Leonardo che avrebbe materialmente trasferito voti da Trump a Biden. E afferma di poter dimostrare l’intera manipolazione
Tra i nomi che fioccano in questi giorni spicca The Italian Job, come il film che racconta la rapina del secolo tra i canali di Venezia. Quella su cui sta indagando la Procura di Napoli, invece, potrebbe essere la truffa del millennio, e potrebbe essere stata orchestrata (anche) in via Veneto. Si tratta della frode elettorale nelle Presidenziali americane, la cui pistola fumante potrebbe essere (o arrivare) nella disponibilità dei magistrati partenopei. Merito dell’esperto informatico nostrano che avrebbe materialmente eseguito la manipolazione dei suffragi a vantaggio del candidato democratico Joe Biden. E contro il quale i media mainstream hanno già avviato l’immancabile macchina del fango.
L’Affidavit della discordia
Lo scorso 6 gennaio, in contemporanea con i vergognosi incidenti di Capitol Hill, l’avvocato Alfio D’Urso diffondeva la deposizione giurata di un suo assistito. Si chiama Arturo D’Elia, ed è un ex dipendente di Leonardo S.p.A., società italiana leader nei settori della difesa e delle tecnologie aerospaziali. E il cui azionista di maggioranza è il Ministero dell’Economia.
D’Elia è agli arresti per cybercrimini commessi a danno della stessa azienda tra il 2015 e il 2017. In quello che in gergo si definisce General Affidavit, ha affermato di aver reso un’importante testimonianza sotto giuramento davanti a un giudice napoletano.
«Dichiara che il 4 novembre 2020, su istruzione e direzione di persone statunitensi che lavorano presso l’Ambasciata degli Stati Uniti a Roma, ha intrapreso l’operazione per trasferire i dati delle elezioni statunitensi del 3 novembre 2020 dal significativo margine di vittoria di Donald Trump a Joe Biden in un certo numero di Stati in cui Joe Biden stava perdendo. L’imputato ha dichiarato che stava lavorando nella struttura di Pescara della Leonardo S.p.A. e ha sfruttato le capacità crittografiche della guerra informatica militare per trasmettere voti scambiati tramite il satellite militare della Torre del Fucino a Francoforte, in Germania. L’imputato giura che i dati in alcuni casi potrebbero rappresentare più del totale degli elettori registrati».
Inoltre, «l’imputato ha dichiarato che intende testimoniare tutti gli individui e le entità coinvolte nel passaggio dei voti da Donald Trump a Joe Biden quando sarà in totale protezione per se stesso e la sua famiglia. L’imputato afferma di aver assicurato in una località segreta il backup dei dati originali e dei dati scambiati».
The Italian Job
Il documento è stato rilanciato da Nations in Action, un’organizzazione nata per indagare sulle eventuali irregolarità di Usa 2020. La cui fondatrice, Maria Zack, ha cercato di ricostruire – e spiegare – i vari passaggi di un’operazione che sarebbe stata concepita addirittura nel 2016. Quando alla Casa Bianca sedeva ancora Barack Obama e a Palazzo Chigi Matteo Renzi – benché anche l’attuale Premier Giuseppe Conte sarebbe «molto impegnato e coinvolto».
Pare che il piano iniziale dovesse essere attuato a Francoforte, la città in cui sono custoditi i server di Dominion, il controverso software utilizzato nelle Presidenziali americane. Tuttavia, il vantaggio del tycoon sarebbe stato tale da rendere inutile lo spostamento dei voti.
L’ambasciata di via Veneto avrebbe quindi sollecitato l’intervento di D’Elia, che avrebbe usato la tecnologia di Leonardo per generare nuovi algoritmi e caricarli su Dominion. Pare sia per questo che, nella notte elettorale, il conteggio dei suffragi s’interruppe all’improvviso in alcuni swing states in cui l’attuale Potus era largamente in vantaggio. E che, alla ripresa dello spoglio, virarono verso Sleepy Joe in modo tanto rapido da destare sospetti.
Sospetti sui quali tutti dovrebbero avere l’interesse a far luce. I Repubblicani, perché si sentono illegalmente defraudati della vittoria. I Democratici, per allontanare qualsiasi ombra dalla presidenza di Biden. Oppure qualcuno ha paura della verità?
I media mainstream e The Italian Job
Va da sé che questo nuovo The Italian Job ha suscitato le reazioni pavloviane dei prosseneti del Nuovo Ordine Mondiale. Il che non sorprende più di tanto, considerando che, come rilevato dalla letteratura sociologica, l’80% dei cronisti ha un orientamento ben preciso. Quello, per intenderci, che in caso di conflitto tra realtà e ideologia sceglierebbe comunque quest’ultima.
Non che, intendiamoci, l’Affidavit di D’Elia non susciti dubbi. È lecito chiedersi, per esempio, come mai una deposizione giurata rilasciata da un italiano sia stata scritta in inglese. Oppure, per quale motivo gli hacker di stanza in Germania non abbiano agito autonomamente, senza dover passare per il Belpaese.
Perplessità legittime, naturalmente. Il punto, però, è che non spetta al cosiddetto “quarto potere” scioglierle, soprattutto ora che preferisce il ruolo di cagnolino da compagnia del potere vero. E vale anche, se non soprattutto, per i social network, che nel loro recente delirio di onnipotenza ritengono addirittura di poter decretare chi ha diritto di parola. Il pogrom virtuale nei confronti di The Donald prima, e di Parler poi, la dice lunga sul concetto di democrazia in voga nella Silicon Valley.
Posto, quindi sono. E per essere cancellati da questa società dell’immagine è sufficiente scostarsi dalla narrazione politically correct.
Tuttavia, come ha rimarcato Guido Scorza, membro dell’Autorità Garante per la Protezione dei dati personali, «in democrazia chi ha diritto di parola devono deciderlo giudici e autorità». Non delle piattaforme Web.
Ebbene, si dà proprio il caso che ci sia un’inchiesta in corso. Se dunque vi siano delle evidenze relative a questo The Italian Job, come spergiura D’Elia, e quanto siano attendibili, saranno i magistrati a stabilirlo. Sempre che i manutengoli del pensiero unico non abbiano obiezioni, ça va sans dire.