Ucraina e non solo: se l’informazione omologata provoca rigetto…
La reazione alle parole di Berlusconi va nella stessa direzione di quelle su pandemia, ambientalismo e politically correct: perché la narrazione a reti unificate alla fine esaspera
Cos’hanno in comune dei fenomeni tra loro diversissimi come la guerra in Ucraina, la pandemia da coronavirus, l’affermazionismo ecologista e il politically correct? La risposta è un’informazione omologata che pretende di imporre su queste tematiche un pensiero unico, tra l’altro silenziando qualsiasi opinione anche solo vagamente discordante. Ma che sempre più spesso (e costitutivamente) suscita piuttosto reazioni uguali e contrarie.
Ucraina e non solo: dal Covid-19 a Sanremo
«Io a parlare con Zelensky, se fossi stato il Presidente del Consiglio, non ci sarei mai andato». Così, come riporta l’ANSA, parlò qualche giorno fa il leader azzurro Silvio Berlusconi, facendo scoppiare subito il caso: politico, certamente, ma anche, per così dire, sociologico.
Per rendersene conto è sufficiente una rapida occhiata ai principali social network (che d’altronde si dice rispecchino l’umore del Paese). Come la pagina Facebook del Riformista dove, accanto ai commenti indignati, ve ne sono molti che esprimono apprezzamento per la presa di posizione del Cav. E non è nemmeno la prima volta che, sull’argomento, gli Italiani dissentono dall’inquilino di Palazzo Chigi, in carica (Giorgia Meloni) o meno (Mario Draghi).
L’aspetto curioso è che il conflitto tra Russia e Ucraina è uno dei temi connotati da un’asfissiante narrazione a reti unificate. Com’era stato già per il Covid-19, e prima ancora per l’ambientalismo e, forse in maniera appena meno pervasiva, per il politicamente corretto. Tutte questioni che, a furia di essere trattate dai media mainstream tra il manicheo e l’agiografico, hanno provocato in molti un vero e proprio rigetto.
Un caso prototipico, in tal senso, è l’ultimo Festival di Sanremo. Che secondo l’onorevole dem Debora Serracchiani ha raccontato «in modo intelligente e con le forme e i linguaggi talvolta provocatori dell’arte, un’Italia più avanti di chi la governa». Affermazione quantomeno azzardata, visto che non sono passati neanche cinque mesi dalle Politiche, ma soprassediamo.
Il rigetto della narrazione a reti unificate
Il punto è che quello che una volta era il tempio della canzone italiana è stato ora ridotto a megafono delle istanze politically correct. Dal gender fluid all’aborto, dalla droga all’immancabile allarme fascismo, l’Ariston non si è fatto mancare proprio niente, ad abuso e consumo di oltre uno spettatore su due.
Sembrava insomma un assist perfetto al Pd, per cui d’altronde la stessa collocazione in minoranza (che tradizionalmente attira le simpatie dei votanti) rappresenta un’opportunità. Doppia, se si considera che il Governo Meloni non è esattamente partito col piede migliore. Tant’è che il leader di FdI ha provato a giustificarsi affermando di dover «fare i conti con la realtà» rispetto alle promesse della campagna elettorale. Che forse in politica è la frase peggiore possibile, perché se va bene dà l’idea dell’incompetenza, se va male quella della malafede.
In ogni caso, a musica festivaliera non ancora spenta, sono arrivate le Regionali e, come spesso accade, alle piazze (virtuali) piene si sono contrapposte le urne vuote. Il che, in realtà, si spiega perfettamente in riferimento al – perfino peggiore – vuoto (di pensiero) degli omologhi sanremesi di via del Nazareno.
Perché, anche a non voler (è il caso di dirlo) cantare fuori dal coro, i progressisti avrebbero potuto, anzi dovuto limitarsi a lasciar sbagliare l’esecutivo. Invece, evidentemente non hanno ancora capito (la candidata alla segreteria Elly Schlein docet) qualcosa di semplicissimo: che la pretesa di un conformismo obbligatorio esaspera. E che basta una sola esternazione di un Fedez, di una Ferragni o di una Egonu per rivitalizzare i consensi della maggioranza.
In compenso, lo share gode di ottima salute. Parafrasando Sant’Agostino, ama(deus) e fa’ ciò che vuoi.