Ucraina, Fonseca racconta la fuga da Kiev: “Un incubo, trenta ore senza mai fermarsi”
“Era il 24 febbraio e dovevo partire alle 10 per il Portogallo con la famiglia, quando alle 4:30 abbiamo sentito cadere le prime bombe”
In un’intervista rilasciata alla Gazzetta dello Sport, l’ex allenatore di Shakhtar Donetsk e Roma, Paulo Fonseca, ha raccontato la sua fuga da Kiev, dove si trovava insieme a sua moglie Kateryna quando la Russia di Putin ha iniziato l’invasione dell’Ucraina.
Fonseca: “Dobbiamo fermare il mostro”
“Quello che si sta facendo è importante, ma non è sufficiente. L’Europa e gli Stati Uniti, militarmente, stanno lasciando sola l’Ucraina. Invece dobbiamo fermare il mostro. Non sono un politico, ma ad esempio sono favorevole alla no fly zone. È vero che hanno l’atomica, ma stiamo lasciando diventare Putin troppo forte, perché lui sente la paura della comunità internazionale. Eppure, se non si ferma adesso, sarà più difficile farlo dopo. Il peggio deve ancora arrivare. Anche le centrali nucleari sono un problema. Con quest’uomo non sappiamo mai quello che può succedere. È lui il colpevole principale. Chi lo supporta avrebbe bisogno di un aiuto psicologico”.
“Nel 2014 il mondo ha chiuso gli occhi su Donetsk e il Donbass”
“Resa dell’Ucraina? È facile dirlo da lontano. Se i russi invadessero l’Italia o il Portogallo, noi non combatteremmo? Non c’è niente di più prezioso della libertà. Tanti Paesi ora hanno paura. Georgia, Moldavia, i Baltici, la Polonia. Se Putin vincerà questa guerra, sarà un guaio per tutto il mondo. Nella parte orientale dell’Ucraina diverso stato d’animo verso i russi? Non è così. Il problema è che nel 2014 il mondo ha chiuso gli occhi su Donetsk e il Donbass.
Io ho molti amici lì e nessuno voleva far parte della Russia. L’informazione è manipolata, i russi non sanno la verità, ma in futuro sarà il popolo a pagarne le conseguenze. Per questo penso che proprio il popolo potrebbe cambiare la situazione. Non ho mai conosciuto Zelensky quando era un attore, ma vedevo le sue gag da presidente senza capirle per via della lingua. Non pensavo che lo sarebbe diventato davvero. Ora invece è un eroe, e capisco che i russi vogliano ucciderlo”.
La fuga da Kiev
“Fuga da Kiev? Un incubo. Era il 24 febbraio e dovevo partire alle 10 per il Portogallo con la famiglia, quando alle 4.30 abbiamo sentito cadere le prime bombe. Ci siamo spaventati. Il mio amico Srna (dirigente dello Shakhtar) mi ha invitato ad andare all’hotel Opera, dove c’era la squadra. Ci siamo rifugiati in un bunker. C’era De Zerbi, c’erano i brasiliani con le famiglie. I bambini dormivano per terra nei sacchi a pelo”.
“Solo al confine con la Romania ho cominciato a rilassarmi”
“Avevamo paura, poi la mia ambasciata ha organizzato un mini van e in tre famiglie siamo partiti
verso la Moldova. È stato un viaggio terribile. Trenta ore senza fermarsi mai, incolonnati a volte a 5km/h, con gli aerei che ci passavano sulla testa, i posti di blocco, mentre la gente intorno non trovava né carburante né cibo. Solo quando sono arrivato al confine con la Romania ho cominciato a rilassarmi, ma si fa per dire”.
“Vorrei che le grandi personalità del calcio prendessero posizione”
“Mia moglie piange in continuazione, perché abbiamo amici e parenti in tutta l’Ucraina. Ora, tramite la mia federazione, sono diventato ambasciatore per la pace e ci adoperiamo per trovare alloggio, lavoro e scuola ai profughi. Una piccola parte, naturalmente, dei due milioni di quelli che stanno fuggendo. Molte grandi personalità del calcio non hanno detto niente sulla guerra. Vorrei che prendessero posizione. È il momento”.