Umanesimo e dintorni, Erma bifronte…
Alla fine della sua lunga e incredibile vita, Augusto chiese ai presenti se avesse ben recitato la sua parte nel teatro della vita
In “Vita activa” del 1958, il suo capolavoro in termini di teoria politica, Hannah Arendt rintraccia nell’idea che i Greci avevano della polis (e i Romani della Repubblica), il pensiero più profondo che la tradizione occidentale ha elaborato per quanto riguarda le forme della convivenza politica. A questa idea capitale si affianca quella di natalità, per come gli derivava dal Nuovo Testamento.
Ciò corrisponde ad un periodo fondamentale della formazione di colei che è stata, con Simone Weil, una delle pensatrici più profonde e radicali del secolo scorso (ed è quasi superfluo sottolineare come, nell’opera di entrambe, un tocco squisitamente femminile si aggiunga a vivacizzare la profondità del loro pensiero): i corsi universitari che il giovane Heidegger teneva, tra Friburgo e Marburgo, negli anni in cui andava componendo “Essere e tempo” (1927). Nell’elaborazione della sua ontologia fondamentale, Heidegger si muoveva proprio tra l’ontologia greca e il primo pensiero cristiano.
Ci si può domandare: a che serve ripensare il pensiero e la civiltà del mondo antico, nell’epoca di internet e della globalizzazione? È Hannah Arendt a risponderci, proprio all’inizio di “Vita activa”: i Romani furono “forse il popolo più dedito all’attività politica che sia mai apparso” (ed. it. Bompiani, p. 7).
Si pensi alla decadenza politica in Occidente in questo momento storico, alla confusione, al populismo, all’impreparazione, all’irresponsabilità e all’allergia alla democrazia che oggi regnano. Si pensi alla tragedia della Siria e ai nuovi venti di guerra. Al senso di incertezza per il futuro. Si capirà allora che senso può avere, oggi, ripensare la tradizione umanistica, ossia i Greci e i Romani e il loro influsso, la loro scia nella cultura occidentale successiva.
In questo contesto, appare quasi scontato soffermarsi su ciò che la cultura contemporanea italiana è in grado di offrirci sotto questo profilo e il pensiero va ai lavori di Luciano Canfora che, per ciò che riguarda la filologia e la storia del mondo antico, ha diversi decenni di pubblicazioni alle spalle, tra cui studi molto importanti su Tucidide e il secolo di grandezza ateniese ruotante intorno alla Guerra del Peloponneso, sul periodo relativo a Cesare e alla guerre civili nella storia romana, nonché lavori di ambito storico più generale, tra cui il volume “La democrazia. Storia di un’ideologia” (Laterza).
Dopo il bimillenario della morte di Augusto sopravvenuto nel 2014, Canfora ha dato alle stampe un’importante monografia intitolata “Augusto figlio di Dio” (Laterza 2015). In questo libro, bello e complesso, troviamo l’importante definizione secondo cui Augusto fu “totus politicus”. Canfora, fedele alla grande scuola del materialismo storico, non ha peli sulla lingua nello smascherare le nefandezze dell’operazione politica augustea, l’uso spregiudicato della violenza, il dispotismo, la macchina della propaganda, e si può dire con certezza che “The Roman Revolution” di Sir Ronald Syme (1939, ed. it. Einaudi) non manchi mai sul suo tavolo di lavoro.
Eppure, se si hanno in mente Auschwitz, i Gulag sovietici, “gli ultimi giorni dell’umanità” e le “tempeste d’acciaio” della Prima guerra mondiale, oppure, per tornare all’oggi, lo spettacolo devastante del Medio Oriente in fiamme, i bambini massacrati in Siria, qualcosa ci suggerisce che Augusto, pur nella sua insondabile ed enigmatica personalità, pur nelle atrocità che, sempre, accompagnano il potere – Jacob Burckhardt, che la storia la conosceva bene, fu, nelle sue lezioni “Sullo studio della Storia”, molto chiaro, sotto questo punto di vista – se si ha di fronte tutto questo, allora è possibile dire che, accanto alla brutalità, Augusto abbia conservato e trasmesso anche umanità.
Si pensi al racconto sul suo congedo, profondamente filosofico, dalla vita, accolto da Syme nella sua grande opera, così come da Mazzarino nel suo “L’Impero romano” (altro libro capitale), nonché commentato da Nietzsche nella “Gaia scienza” (nell’aforisma 36 intitolato “Ultime parole”, da leggere insieme all’aforisma 340 intitolato “Socrate morente”).
Alla fine della sua lunga e incredibile vita, dopo un’esperienza terrena con pochi eguali, come solo i grandi antichi hanno avuto, fatta radunare la sua cerchia più intima, chiese ai presenti se avesse ben recitato la commedia, se avesse sostenuto in modo adeguato la sua parte nel teatro della vita.
Non c’è bisogno di aggiungere – per noi che viviamo, secondo la frase di Nietzsche sugli ultimi uomini, di “una vogliuzza per il giorno e una vogliuzza per la notte; salva restando la salute” – che una frase così, al momento della morte, può essere soltanto quella di un gigante.