Umanesimo e dintorni, Karl Kraus: l’Eroe viennese
Scrittore austriaco di origine boema, autentico mattatore della scena letteraria viennese
Ci sono personaggi che segnano un’epoca e che poi, per inspiegabili ragioni, vengono relegati in un piccolo ambito ristretto, di meditazione e di studio, assolutamente inadeguato al livello autentico della loro grandezza. Tra di essi vi è certamente Karl Kraus. Scrittore austriaco di origine boema, ebreo convertito al cristianesimo, autentico mattatore della scena letteraria della Vienna di primo novecento, non è stato favorito dalla difficoltà del suo tedesco, dall’essere tutta la sua opera giocata sul terreno del confronto con quella lingua tedesca, di cui si dichiarava il fidanzato.
Nessuna migliore introduzione alla sua opera del saggio di Elias Canetti, contenuto in “La coscienza delle parole” (ed. it. Adelphi) ed intitolato, nella traduzione italiana, “Karl Kraus, scuola di resistenza”. Canetti deve molto a Kraus, in primo luogo l’aver concepito il proprio rapporto con la letteratura in termini assoluti, in secondo luogo il disprezzo per il potere.
Ma sono in molti a dovergli molto, Benjamin e Adorno ad esempio. La sua attività fu segnata da una rivista dall’esistenza trentennale, “Die Fackel” (“La Fiaccola”), da numerosissime opere in prosa, versi, aforismi, da moltissime letture pubbliche in cui la sua impressionante tempra morale e umana aveva l’occasione di esprimersi al meglio.
Di questa vastissima opera, il lettore italiano ha a disposizione, tradotti nella propria lingua, un numero ristretto di libri, alcuni dei quali cruciali nel percorso letterario di Kraus. Innanzitutto la raccolta “Detti e contraddetti” (1909-1918), curata da Roberto Calasso per Adelphi, certamente uno dei maggiori studiosi italiani di Kraus. In Kraus l’aforisma occupa, come già in Nietzsche, un posto centrale.
Dal punto di vista tematico, vi troviamo tutti i temi cari a Kraus, dalla guerra alla stampa, di cui quello forse fondamentale è il rapporto con la lingua, tedesca in particolar modo. Prima di Heidegger, di Wittgenstein, di Gadamer, il grande scrittore tocca un punto cruciale del pensiero del novecento, ossia che ciò che possiamo comprendere del mondo è linguaggio, che la nostra esperienza della realtà è essenzialmente linguistica. “Il linguaggio è la casa dell’essere”, come scrisse Heidegger al principio della “Lettera sull’umanismo”.
La seconda grande opera di Kraus disponibile per il lettore italiano è “Gli ultimi giorni dell’umanità” (1922), sempre pubblicata da Adelphi e accompagnata da un fondamentale saggio di Calasso intitolato “La guerra perpetua”. Il libro è un dramma a carattere satirico sulla prima guerra mondiale ed è degno di stare accanto ad un Joyce, ad un Musil, ad un Kafka. Qui il furor di Kraus acquista la sua forma definitiva. Lo scrittore, venti anni prima di Heidegger e della Scuola di Francoforte, trascina in giudizio l’epoca. I colloqui tra il criticone, personaggio con cui Kraus rappresenta sé stesso all’interno del dramma, e l’ottimista, sono prove stilistiche e speculative altissime.
Come Nietzsche, egli si accorge si accorge della centralità della volontà di potenza nella nostra epoca, soprattutto quando l’industria viene applicata alla guerra; come Horkheimer e Adorno egli comprende il carattere regressivo del progresso – “il progresso fa portamonete di pelle umana” (ed. Adelphi, p. 244), dice uno degli aforismi – nonché il rischio dell’industria culturale; come Heidegger egli intuisce i pericoli insiti nella tecnica; come Arendt egli capisce cosa può diventare il germanesimo come modello di relazione tra i popoli. Ed il suo è, nello stesso tempo, un ammonimento ed un appello: a conservare il senso di umanità che si trova dentro e fuori di noi, a non lasciar spegnere quel granello di civiltà che ancora rimane nelle nostre vite.
Infine, il grande pamphlet sul nazismo pubblicato postumo, “La terza notte di Valpurga” (1933), è stato tradotto da Paola Sorge per Editori Riuniti. La posizione di Kraus di fronte ai nazisti non lascia spazio a margini di ambiguità. Il grande critico del mondo borghese è inorridito davanti alla follia nazista ed è singolare come, in quest’opera, egli riesca a scorgere la parabola del Terzo Reich molti anni prima della sua conclusione.
Anche in questo caso, il piano primario è quello della lingua: il tedesco dei nazisti gronda sangue fin da subito e il fidanzato della lingua tedesca non può che rilevarlo. Con un grande attacco, il mago della lingua dà inizio alla sua musica: “Su Hitler non mi viene in mente niente” (ed. it. p. 23). Del nichilismo assoluto non è mai facile parlare.