Umanesimo e dintorni, l’Imperativo categorico della memoria
Ricordare è un esercizio faticoso, soprattutto quando di mezzo c’è il Male
Si discute molto di memoria, soprattutto in occasione del 27 gennaio, giorno in cui ricorre l’anniversario della liberazione di Auschwitz, avvenuta nel 1945 e in cui, dalle Nazioni Unite, è stato istituito il Giorno della Memoria. Da questo punto di vista, la possibilità di compiere il faticoso esercizio del ricordo di avvenimenti tanto tragici, l’Italia è particolarmente fortunata: la testimonianza, storica e letteraria, di scampato e reduce dalla Shoah, rendono Primo Levi una figura di livello europeo.
All’età di sessantotto anni, nel 1987, lo scrittore muore suicida a Torino, a quarant’anni esatti dalla pubblicazione di “Se questo è un uomo”, avvolto, probabilmente, dalle nebbie di quel Lager che gli aveva tolto, una volta per tutte, la spensieratezza del vivere.
Un anno prima era uscito il prezioso “I sommersi e i salvati” (Einaudi, Torino 2007), libro in cui la ragione diviene un bisturi chirurgico per comprendere le sottigliezze, i virtuosismi, i ghiribizzi del Male all’interno dei Lager contemporanei, nazisti in particolar modo. “Non essere creduti”, questo è stato l’incubo di ogni ebreo nell’epoca del dopo Auschwitz, quella in cui, per Theodor W. Adorno era diventato impossibile scrivere poesie.
Primo Levi pubblicò “I sommersi e i salvati”, libro che, senza esitazione, deve essere definito teorico, dopo una vita dedicata all’arte della memoria e del racconto della stessa. Questo impegno, che forse finì con lo stritolarlo, ne ha fatto uno dei più insigni testimoni di quegli anni drammatici, quanto la qualità della sua scrittura lo ha reso uno degli ultimi significativi esponenti della letteratura italiana.
Un critico acuto come Tzvetan Todorov è autore della prefazione al libro, lo storico Walter Barberis del saggio conclusivo. Scrive Todorov: “Levi aveva ragione, la memoria è necessaria; ma noi oggi dobbiamo aggiungere: tuttavia non basta” (pp. VII-VIII). Ciò che conta è la soglia della vigilanza critica rispetto al male presente intorno a noi, anche in paesi democratici.
Ciò, tuttavia, non significa scivolare nella grossolana identificazione delle scelte, in ogni caso spesso assai discutibili, di governi di paesi come Stati Uniti e Israele con la politica radicalmente genocida della Germania nazista. Ma quando si arriva ad Auschwitz, aggiunge Todorov, è troppo tardi per indignarsi.
Cancellare le tracce, questa l’intenzione dei nazisti, tenacemente perseguita. Riscrivere la storia, l’ambizione del totalitarismo novecentesco, non solo nazista. Racconta Hannah Arendt, in quel capolavoro di esegesi filosofica che è “Le origini del totalitarismo” del 1951, di come Stalin avesse fatto mettere in circolazione una storia riveduta della rivoluzione d’ottobre in cui non risultava esservi mai stato un uomo di nome Trockij comandante dell’Armata Rossa.
Pendant di questi fenomeni fu il silenzio dei civili. Ad esempio delle fabbriche cui era stata commissionata, dai comandi SS, la fabbricazione di forni crematori multipli o dell’acido cianidrico che veniva usato durante le operazioni di sterminio.
Nel discorso di Levi occupa un ruolo cruciale quella che egli chiama la zona grigia, ossia quel luogo intermedio in cui le vittime si confondono con i carnefici in una inquietante condivisione di responsabilità. Essa è rappresentata dai Sonderkommandos, la Squadra Speciale che, nel Lager, aveva il compito di eseguire le operazioni di ripulitura e smistamento dei cadaveri morti nelle camere a gas.
Essi, quasi sempre ebrei, erano destinati a morire rapidamente a loro volta, per essere sostituiti da altre squadre. Non ultimo, tra i fini di questa operazione, vi era quello di coinvolgere, nella responsabilità dello sterminio, le stesse vittime. “Aver concepito ed organizzato le Squadre è stato il delitto più demoniaco del nazionalsocialismo” (p. 38), afferma lo scrittore.
Ricordare è un esercizio faticoso, soprattutto quando di mezzo c’è il Male. Ha scritto Adorno nella “Dialettica negativa”: “Hitler ha imposto agli uomini nella condizione della loro illibertà un nuovo imperativo categorico: pensare e agire in modo che Auschwitz non si ripeta, che non accada niente di simile” (ed. it. p. 328). Ossia il Male che, nel Lager, l’umanità si è trovata di fronte è un distillato purissimo, di cui ogni goccia è difficile da mandare giù.
A volte bisogna fermarsi e riprendere fiato. Appare, perciò, scontato e prevedibile che siano in molti a voltare la testa dall’altra parte. Anche i filosofi che, con acutezza magistrale, analizzarono le coordinate teoriche di quell’avvenimento, come Adorno e Arendt, non ne fecero, al contrario di Levi, esperienza diretta.
Eppure questo esercizio della memoria, deve diventare un imperativo categorico per ciascuno di noi, secondo le parole di Adorno appena citate. Le parole asciutte, sobrie, di Levi, scavano e lasciano un piccolo solco. Specchio di quel solco gigantesco in cui milioni di vite furono inghiottite, travolte e distrutte e che abbiamo il dovere di ricordare ogni giorno dell’anno.