Una irresistibile capacità di contare: un pensiero per Cicerone
Di fronte ai nuovi spettacoli di brutalità che la Storia ci mette di fronte, la pacata saggezza e la dolce umanità del “grande romano” tornano di attualità
Il I secolo a. C., nella storia romana, è paragonabile al V secolo a. C. nella storia greca e così si studiano anche a scuola. È il momento culminante per quelle due grandi civiltà. Fioriscono le arti, il pensiero filosofico e storico e grandi individualità si affacciano sul teatro della storia del mondo. Basti pensare a Milziade il giovane, Leonida, Temistocle, Aristide, protagonisti delle Guerre persiane e, più tardi, a Pericle.
Per quanto concerne la Roma del I secolo a. C. ci vengono incontro i nomi di Pompeo, Crasso, Giulio Cesare, Cicerone e, più tardi, quello di Ottaviano, il futuro Augusto.
La serenità che traspare dalle arti – sono epoche in cui fiorisce lo stile classico – non corrisponde, però, ad un’analoga tranquillità sul piano delle dinamiche storiche.
Sono anche epoche di mutamenti epocali, che non avvengono senza traumi: la lotta politica, sociale e individuale infuria senza sconti né margini di esitazione. Né Atene dopo il V secolo a. C., né Roma dopo il I secolo a. C., saranno più le stesse.
Non solo un incidente della storia
Da questo punto di vista, le grandi esperienze di pensiero sono uno spaccato rivelatore di un’epoca intera, che si tratti di Platone, Tucidide o Cicerone. E se i Romani non furono mai pari ai Greci sul piano delle esperienze spirituali e culturali, certo è possibile dire che Cicerone ha avuto, nella tradizione dell’umanesimo occidentale successivo, un ruolo di primissimo piano.
Da questo punto di vista, la monografia di Pierre Grimal (1912-1996), storico francese e professore alla Sorbona, intitolata “Cicerone. L’uomo che inventò l’Europa” (1986, ed. it. Garzanti), costituisce un ottimo strumento di riflessione.
Proprio ora che, di fronte ai nuovi spettacoli di brutalità che la Storia ci mette di fronte, la pacata saggezza e la dolce umanità del grande romano tornano di attualità, come sempre è successo nella nostra vicenda storica, del resto.
In più, un altro elemento deve essere considerato. Viviamo in un’epoca in cui il numero delle parole cresce in modo esponenziale, da un punto di vista quantitativo, ma non è possibile dire lo stesso per l’aspetto qualitativo. Infuria l’Opinione, congiunta all’elemento dell’industria culturale, ossia al giornalismo e ai social network.
Ciò espresse Rilke, con versi stupendi, già più di un secolo fa: “Le parole grandi / dei tempi in cui gli eventi erano ancora / visibili, non sono più per noi. / Chi parla di vittorie? Resistere oggi è tutto” (“Requiem per il Conte W. von Kalckreuth”, 1908, trad. di G. Cacciapaglia).
Il passo falso del pensiero post-metafisico
Ecco, allora, che – in questo contesto – Cicerone ci appare come un gigante. Per la grande scuola della filosofia contemporanea, Cicerone fu un personaggio non degno di considerazione e di stima autentiche, poiché non aveva rapporti adeguati con la dimensione fondamentale del pensiero.
All’inizio del monumentale libro su Nietzsche del 1961, intitolato semplicemente “Nietzsche” (ed. it. Adelphi), Heidegger cita una frase della “Volontà di potenza” di Nietzsche, in cui si dice che nulla è più ripugnante della “pedante esaltazione della filosofia” da parte di Seneca e Cicerone. E, per quanto concerne il rapporto del pensiero tedesco contemporaneo con la filosofia latina, si potrebbe chiuderla qui. Con tanto di Facoltà di Filosofia di tutti i continenti al seguito.
Ma la frase successiva del passo di Nietzsche è rivelatrice. Poiché il filosofo di Zarathustra vi afferma che “la filosofia ha poco a che fare con la virtù”. Ecco, dunque, che ci avviciniamo al punto. Se il pensiero è volto a recuperare una dimensione di purezza arcaica, a ricostruire un altare alla Verità forte, come fa anche Severino, allora Cicerone è un antesignano di Don Abbondio. Del prete opportunista e voltagabbana, pronto a montare sul carro del vincitore di turno.
Una vecchia idea: l’uomo al centro
Altrimenti, si può guadagnare un altro tipo di prospettiva ed è quello che fa Grimal con il suo splendido libro. Ossia spostarsi da una prospettiva di tipo teoretico ad una di tipo storico-umanistico, in cui l’etica non è più un fardello inessenziale del pensiero.
La misoginia di Nietzsche non è soltanto un caso. Secondo Adorno, essa ricacciava il grande tentativo filosofico di Nietzsche nell’alveo della società borghese. Soprattutto attraverso la frase, contenuta in “Così parlò Zarathustra”, che afferma: “Vai dalle donne? Non dimenticare la frusta!”. Analogamente, lo scivolone di Heidegger sul nazismo, che aveva tormentato la coscienza del suo ex-amico e sodale Karl Jaspers, non è soltanto un incidente passeggero.
Si tratta, piuttosto, del frutto di una tradizione di pensiero che ha voluto relegare l’etica, e Cicerone, nel ghetto. Le cose non succedono per caso ed è possibile verificare, a qualsiasi livello, i disastri provocati da un culto della volontà di potenza spinto troppo in là.
Ecco, allora, che il grande romano, cultore dell’eloquenza e del secolo degli Scipioni – cui Grimal ha dedicato un altro dei suoi splendidi libri – ci viene incontro fresco e scattante, con la toga ancora mossa dal vento, nonostante i suoi duemila anni di età. Portati magnificamente, non c’è che dire…