Una riflessione sulla Germania tra storia e memoria
Non prendersi troppo sul serio, è pur sempre una delle ricette per sopravvivere in questa vita. La cultura tedesca, la Germania, non ha conosciuto questa ricetta
Con il crescere dell’esperienza, sempre più appare chiaro che la ricchezza della vita è nella mescolanza. Non nelle identità e nei confini rivendicati in modo assoluto e paranoico, ma là dove le acque, le storie, le individualità si mescolano e si arricchiscono in modo reciproco.
A passo di gambero
Così, chi scrive queste fugaci parole, può rivendicare due quarti di romanità e cattolicesimo, un quarto di pugliesità e un quarto di ebraismo.
Detto nello stesso ordine, a queste identità corrispondevano il nonno materno e la nonna paterna, il nonno paterno e la nonna materna. Detto, invece, secondo i loro legami matrimoniali, Gabriele e Vera – la parte materna, Franco e Elena – il lato paterno. Tutti e quattro amatissimi – e, io credo, che l’amore dei nonni sia una delle fortune che possono capitare nella vita di un bambino.
Eppure un’inquietudine ha pesato. Non solo per una separazione dei genitori, tanto rapida quanto tragica. Io credo che il peso, il portato dell’immensa tragedia del secolo breve – per dirla con il grande libro di E. J. Hobsbawm del 1994 – abbia avuto un peso anche nella mia vicenda familiare e personale. Non è del resto una novità, per i pochi lettori delle mie riflessioni.
Se in “L’apprendista stregone. Note sul rovesciamento di mezzi e fini nel mondo contemporaneo” (Moretti & Vitali, Bergamo 2014), ho analizzato la crisi dell’epoca, è perché questa esperienza è nata dentro di me e ha segnato anche la mia vita personale.
Analogamente, se in “Il pensiero filosofico nell’epoca di Internet. La cultura umanistica al tempo della globalizzazione” (Gangemi, Roma 2023), ho tratteggiato l’immagine di una cultura umanistica come bacino di senso e bussola in grado di corrispondere alle crisi dell’epoca, è perché questa esigenza era sorta, innanzitutto, nel foro della mia individualità.
Un retaggio difficile
Così, ne sono sempre più convinto, il dramma della Germania, del totalitarismo (anche sovietico), del fascismo italiano, della Seconda guerra mondiale, deve aver pesato sulla mia famiglia: su mia nonna materna (ebrea, eppure scampata al Lager), su mia madre e, infine, su di me.
Il rapimento trasmessomi dagli autori di lingua tedesca – molte volte ebrei – fu per me fatale, fin da giovane. Hannah Arendt e Elias Canetti, Rilke e Kafka, Jaspers e Heidegger, Kraus Benjamin Adorno e Horkheimer, Nietzsche e Marx, più tardi Kant e Goethe, Hegel e Schopenhauer, Hölderlin e Thomas Mann, Hugo von Hofmannsthal e Joseph Roth hanno formato la mia individualità adulta e quel poco che so delle grandi questioni dello spirito occidentale.
Così, verificato che a tavola, quando era presente mia nonna materna Vera, non era possibile semplicemente pronunciare la parola Germania, la mia reazione fu nel segno della curiosità. Pensai che la Germania non poteva essere soltanto Hitler – del signore con i baffetti che voleva portarsi via la mia amata nonnina quando era giovane, sapevo già qualcosa intorno ai quattro anni – che volevo capire di più. Mi imbattei così in Hannah Arendt. Ebrea tedesca, figura intellettuale e morale al di là di qualsiasi dubbio, era ciò che faceva per me.
Nel 1997, intorno ai vent’anni, per mesi lessi “Le origini del totalitarismo” (1951, ed. it. Einaudi) e “La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme” (1963, ed. it. Feltrinelli), entrambi libri capitali di Arendt. Venendo dal liceo classico, con qualche approfondimento, nell’ultimo anno di liceo, su Leopardi Manzoni e Montale, sulla storia contemporanea, su Nietzsche e Marx, ero completamente basito.
Non solo, non avevo nemmeno immaginato che potessero esistere libri così – a casa, con tutto il rispetto, si andava da Natalia Ginzburg e Italo Calvino, a Giorgio Amendola, a Bassani, a Sartre e Marcuse – ma non avevo nemmeno le categorie filosofiche e linguistiche per esprimere ciò che, faticosamente e con passione, andavo imparando.
Questa capacità anticipatrice della facoltà razionale – che nello stupendo aforisma 101 di “Minima Moralia” (ed. it. Einaudi), intitolato Pianta di serra (Treibhauspflanze), Adorno assegnò alla configurazione del precoce – ha creato una frattura comunicativa tra me e il resto del mondo, che ancora oggi, dopo quasi trent’anni, fa sentire il suo peso nella mia vita. “Non si chieda cosa ho fatto in tutto questo tempo. / Resterei muto; / e non direi perché”, scrive Kraus, nella sua grande poesia sul nazismo del 1933.
Il valore (salvifico) di una risata
In un recente articolo su Ernst Jünger – un altro dei miei dèi di stirpe germanica – mi sono trovato a parlare di noi contemporanei come nipoti di Goethe e figli di Nietzsche. Così, mentre scrivo, sto ultimando lo studio del libro di Karl Jaspers, “Nietzsche. Introduzione alla comprensione del suo filosofare” (ed. it. Mursia) del 1936. In esso, Jaspers fa qualcosa che Heidegger – nel suo grande libro su Nietzsche del 1961 – non riesce a fare.
Da autore della “Psicopatologia generale” (1913), Jaspers è in grado di mettere sotto il fuoco dell’analisi ermeneutica la dimensione psicologica del pensiero e dell’esperienza spirituale di Nietzsche. Dall’analisi di Jaspers, si evince come, in Nietzsche, la frattura comunicativa col mondo fosse totale, abissale. Senza questa capacità, senza la sua follia, senza la sua eccezione, ci dice Jaspers, Nietzsche sarebbe rimasto un minore.
Per quanto mi riguarda, sono contento che la mia dimensione lillipuziana, mi abbia risparmiato almeno un po’ della sua sofferenza e che la mia capacità di comunicazione col mondo sussista, sia pure con fatica. Quando non si ha in sorte il destino folgorante, o la condanna, della grandezza, lì c’è spazio per la leggerezza e l’ironia.
Non prendersi troppo sul serio, è pur sempre una delle ricette per sopravvivere in questa vita. Umberto Eco, scomparso nel 2016, ne ha fatto una delle ricette della sua opera, con la sua intelligenza molteplice, flessuosa e rapidissima.
Maestri di un’epoca
La cultura tedesca, la Germania, non ha conosciuto questa ricetta. Forse qui è da individuare il punto decisivo. La serietà, capovolta su sé stessa, può assumere un volto demoniaco.
Racconta Ernst Cassirer – alla fine del suo mirabile “Vita e dottrina di Kant” (1918, ed. it. La Nuova Italia) – che una volta Charlotte Von Schiller diede questo giudizio su Kant: se Kant fosse stato capace di provare amore (Liebe), questo sentimento lo avrebbe trasfigurato a un livello di grandezza ancora superiore, ma dato che così non fu, qualcosa mancò alla sua grande e vigorosa natura.
Sicuramente, le nostre vicende personali sono raramente interessanti. Credo, invece, che alcune delle vicende, dei drammi, degli spaccati della cultura tedesca moderna e contemporanea, possano e debbano avere un rilievo un po’ più ampio.
Non si va molto lontano nella comprensione di noi stessi e della nostra epoca, senza gli autori cui abbiamo fatto cenno in queste righe. Parlo, naturalmente, di una Germania altra, rispetto a quella nazista – anche quando, come nel caso di Heidegger e Jünger, la contiguità e la vicinanza con il nazismo furono pubbliche e manifeste.
Di quella Germania, di cui Thomas Mann disse, nel 1938 – in frontale polemica con il nazismo – che essa era lì dove era lui: ossia la Germania era là dove veniva custodita la lingua che era stata di Goethe e di Karl Kraus, non dove venivano urlati, con latrati bestiali, gli ordini delle SS. Nel 1944, Benedetto Croce – formatosi alla scuola di Hegel e di Goethe – si espresse non molto diversamente.
Di quella Germania che, trovatasi di fronte al mostro della malattia, ha saputo produrre la cura… Al principio del suo grande libro “Uomini tedeschi. Una serie di lettere” (ed. it. Adelphi) – pubblicato nel 1936, sotto lo pseudonimo di Detlef Holz – Walter Benjamin volle mettere questo motto: “dell’onore senza gloria / della grandezza senza splendore / della dignità senza mercede”.
Niente rende meglio l’atmosfera spirituale di quella Germania che era stata la terra di Kant, di Goethe, di Hölderlin, di Büchner e di Nietzsche. E camminando, a Berlino, nella piazza che è diventata il Memoriale per gli ebrei assassinati d’Europa si può tirare, finalmente, un sospiro di sollievo.
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