Una storia da meditare: il caso di Giorgio Ambrosoli
Davanti al cadavere dell’avvocato Giorgio Ambrosoli, il maresciallo maggiore della Guardia di Finanza Silvio Novembre giura a sé stesso che non servirà più uno Stato che lascia morire così i suoi figli migliori
La storia italiana, nella seconda metà del Novecento, è straordinariamente drammatica e dolorosa. Stragi, enigmi irrisolti, terrorismo rosso e terrorismo nero, morti, mafia, corruzione. Si è giocato, sulla pelle degli italiani, un pesante capitolo della guerra fredda, della lotta mortale tra Stati Uniti e Unione Sovietica, con la Democrazia Cristiana e la Chiesa a combattere a favore degli americani e il Partito Comunista a militare a favore dei sovietici, sempre sull’orlo di una guerra nucleare.
Fino a quell’evento che raggiunse il culmine della tensione possibile e immaginabile: il rapimento e l’uccisione del Presidente della Democrazia Cristiana Aldo Moro, nella prima metà del 1978, cui Marco Bellocchio ha dedicato bellissimi film. La generazione nata in quegli anni, quella di chi scrive, queste cose le ha dovute leggere e studiare su libri giornali e documentari (indimenticabile “La notte della Repubblica” di Sergio Zavoli). Ma i nati tra il 1940 e il ’50, certe cose le ricordano fin troppo bene.
L’Italia è un paese in cui il cambiamento ha sempre spaventato moltissimo. Lo sapevano gli uomini del Risorgimento che guardavano a Machiavelli. Ma già Dante e Petrarca, tra prima e seconda metà del Trecento, ebbero straordinarie intuizioni su questo tema. Un film come “Il Gattopardo” (1963) di Luchino Visconti, tratto dall’omonimo romanzo di Tomasi di Lampedusa, ne offre una splendida e pregevole testimonianza.
Un caso emblematico
Tra le molte tragedie di quel periodo, una è quella di Giorgio Ambrosoli, ucciso per aver voluto comportarsi con una rettitudine sconosciuta all’Italia di quegli anni. Ambrosoli era un giovane e valente avvocato, di orientamento conservatore che, per volere della Banca d’Italia, divenne il commissario liquidatore della banca di Michele Sindona, la Banca Privata Italiana. Fu ucciso nel 1979, all’età di 45 anni.
Su questa vicenda agghiacciante esiste uno splendido libro: “Un eroe borghese. Il caso dell’avvocato Giorgio Ambrosoli assassinato dalla mafia politica” (Einaudi 1991) di Corrado Stajano. Da esso è stato tratto un film di Michele Placido del 1995.
Stajano ci guida nei meandri della vita di Ambrosoli e degli affari di Sindona, con sapiente maestria. Ambrosoli era un uomo d’altri tempi. Conservatore alla maniera di Paolo Borsellino, con la schiena dritta, aveva in mente un’altra Italia. Cosa che, in quegli anni, poteva costare cara.
Andreotti disse che se l’era cercata. Poiché attraverso il caso Sindona è possibile osservare quale fosse il sistema, ossia il modo in cui funzionavano i rapporti tra mondo politico e mondo economico. Pratiche decennali, profondamente radicate, che sussistono ancora oggi.
Il limite della disinvoltura
Se le andava cercando. Ipse dixit! Giulio Andreotti dixit! Rispetto ad una dichiarazione del genere, da parte di un Presidente del Consiglio emerito, dovrebbero cadere le braccia. Eppure bisogna dare adito ad Andreotti di essersi mosso in una situazione di estrema difficoltà.
Spregiudicato fino a fare di questa caratteristica del comportamento umano una qualità metafisica, è troppo semplicistico fare di Andreotti una semplice emanazione del maligno. Da questo punto di vista, il film di Paolo Sorrentino “Il divo – La spettacolare vita di Giulio Andreotti” (2008) merita, proprio per la sua capacità di offrire una lettura complessa degli eventi.
Nel film, l’inossidabile Giulio offre la sua lettura di quegli anni e della sua azione di governo: contaminarsi col Male, per governarlo, controllarlo, guidarlo. Si tratta di ciò che la politica fa dalla notte dei tempi. Machiavelli – che ammirava Cesare Borgia – lo sapeva bene. Così come lo sapeva il Magnifico Lorenzo e, tra i contemporanei di Ambrosoli e Andreotti, Bettino Craxi e Francesco Cossiga. Ma il discorso può essere fatto risalire a Pompeo Magno e Giulio Cesare, o a Temistocle e Pericle.
Il gioco però può sfuggire di mano, anche pesantemente e il rischio è di fare un calderone in cui viene meno qualsiasi possibilità di distinguere il bene dal male. Alla fine del suo libro “La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme” (1963, ed. it. Feltrinelli), Hannah Arendt scrive: “La politica non è un asilo” (p. 284). Le categorie di bene e male hanno un ruolo anche nella politica e, dunque, Andreotti avrebbe potuto risparmiarci almeno la sua terribile ironia.
La scuola del tragico
Come nel caso della Shoah, ciò che rende queste storie difficili è la misura di dolore che contengono. Non diversamente dal caso Moro, del resto. Vite e famiglie spezzate, distrutte, in nome della malvagia superficialità di personaggi, apparentemente agli antipodi, come Michele Sindona e Mario Moretti.
Non a caso Filippo, il secondogenito di Giorgio e Anna Lori Ambrosoli è morto a quarant’anni, nel 2009, mentre si commemoravano i trent’anni dalla morte del padre. Che si sia trattato di malore o di suicidio, il dolore è una pallottola pronta a raggiungerti ovunque.
Da questo punto di vista, è estremamente significativa la figura del maresciallo maggiore della Guardia di Finanza Silvio Novembre che, come si vede nel bel film di Michele Placido, dopo un primo attrito con Ambrosoli, faceva le notti di guardia sotto casa dell’avvocato – mentre la moglie stava morendo – per assicurargli quella protezione che lo Stato gli aveva, di fatto, negato.
Scrive Stajano, che “nella basilica di San Vittore al Corpo, davanti al cadavere dell’avvocato Giorgio Ambrosoli, il maresciallo maggiore della Guardia di Finanza Silvio Novembre giura a sé stesso che non servirà più uno Stato che lascia morire così i suoi figli migliori” (p. 93).
Un cammino in salita
Di fronte alla tragedia, il giovane desideroso di capire e informarsi può farcela ad andare avanti. Ma chi non ha una forte motivazione e determinazione, tende a fuggire via. Le serie tv o la partita sono cibo più digeribile. Ricordo che, quando lessi “I sommersi e i salvati” (1986, Einaudi) di Primo Levi, dovevo fare delle pause permettendo che la misura ardente del dolore defluisse almeno un po’.
Eppure, in tutte le tragedie pubbliche – dall’epidemia di Covid alla guerra in Ucraina a quella tra Israele e Palestina – alla sofferenza non si sfugge. Per non parlare di che vuol dire affrontare la tragedia greca o un libro come “Minima Moralia” di Adorno.
Da questo punto di vista, la grande cultura contemporanea ci viene in aiuto. Schopenhauer e Leopardi, Nietzsche e Giorgio Colli ci insegnano a non voltare il capo dall’altra parte, di fronte alla sofferenza provocata dall’esistenza e dalla Storia. Una volta Guido Ceronetti ha scritto: “soffrire è il mio mestiere d’uomo, e non facendolo passabilmente, rischierei di morire scontento, cosa che temo come il disonore” (“La vita apparente”, Adelphi, p. 14).