Uno sguardo rapinoso sulle cose ultime: Roberto Bazlen e Giorgio Colli
Grazie all’ingegno di Bazlen, arrivarono in Italia libri cruciali, che mancavano al nostro patrimonio cuturale

Sfinge greca
Ci sono figure del passato intorno a cui soffia un’aria di leggenda. Non solo per ciò che concerne i grandi personaggi storici del mondo occidentale: Alessandro Magno, Giulio Cesare, Lorenzo il Magnifico, Napoleone. Non solo per quanto riguarda gli eroi della conoscenza della nostra tradizione: Eraclito, Platone, Dante, Mozart, Goethe.
Sono rievocazioni semplici, quasi scontate, eppure mai del tutto inessenziali. Il discorso dell’aura leggendaria riguarda anche figure più appartate e meno al centro della scena.
Volendo rimanere alla cultura italiana contemporanea, due nomi vengono immediatamente all’attenzione: Roberto Bazlen (Trieste 1902-Milano 1965) e Giorgio Colli (Torino 1917-Fiesole 1979). Si tratta, in entrambi i casi, di figure con una vocazione sapienziale. Il primo fu un grande letterato; il secondo un filosofo ed un grande studioso.
Erano, tuttavia, due figure completamente inclassificabili, al di fuori di qualsiasi schema interpretativo precostituito, con una propensione all’originalità, che sfociava nel genio. Alla fine della loro parabola esistenziale, si ritrovarono tutti e due sotto l’ombrello della casa editrice Adelphi. Ma notevole era stato il percorso che li aveva condotti a lavorare, quasi, gomito a gomito.
Per entrambi abbiamo due documentari notevoli che ci introducono nel vasto e complesso mondo della loro vita spirituale. “Roberto Bazlen. Con uno zaino pieno di libri” (2022) di G. Penco e “Modi di vivere – Giorgio Colli: una conoscenza per cambiare la vita” (1980) di M. Misul e M. Colli.
Ad accomunare i due lavori, emerge una caratteristica: un maestro è tale, se ha la forza e la capacità di trasformare le vite di coloro che lo seguono e gli sono attorno, estendendo la sua sfera di influenza trasformatrice in cerchi concentrici che, via via, si fanno sempre più vasti.
Vale la pena, allora, soffermarsi sulle caratteristiche dell’attività e dell’opera di Bazlen e Colli…
Un monaco dell’Assoluto
Nato a Trieste nel 1902, Roberto Bazlen, detto Bobi dagli amici, era un Socrate in abiti borghesi. Ossia, fece la scelta netta e radicale di non scrivere. Oggi che tutti abbiamo un gran bisogno di scrivere e di pubblicare, non appena abbiamo studiato un po’ o abbiamo sentito manifestarsi qualche spunto creativo nella nostra interiorità, la scelta di Bazlen è spiazzante, tale da togliere il terreno sotto i piedi.
Dopo aver assimilato in profondità la lezione della Mitteleuropa – ossia il crollo dell’individualismo classico, che era stato il nerbo della tradizione occidentale – Bazlen guardava ad Oriente.
Il saggio di Calasso, che apre gli “Scritti” di Bazlen pubblicati da Adelphi nel 1984 e intitolato “Da un punto vuoto”, afferma – nella sua prima frase – che era difficile dire cosa pensasse Bazlen realmente, certo è che la sua presenza induceva gli altri a pensare. Uno degli aforismi più caratteristici di Bazlen, dice: “Io credo che non si possa più scrivere libri.
Perciò non scrivo libri – Quasi tutti i libri sono note a piè di pagina gonfiate in volumi (volumina). Io scrivo solo note a piè di pagina” (“Scritti”, p. 203). Ma vale la pena rievocare le testimonianze, di Bazlen stesso e di altri, per chi fosse interessato a riscoprire questa splendida figura di monaco dell’Assoluto.
Il volume postumo degli “Scritti” di Bazlen, curato da Calasso e con una Nota di Sergio Solmi, raccoglie quattro gruppi di testi: “Il capitano di lungo corso”, “Note senza testo”, “Lettere editoriali”, “Lettere a Montale”. Ossia un abbozzo di romanzo, una raccolta di aforismi, i pareri editoriali di Bazlen, le lettere a Eugenio Montale, uno degli amici più importanti e significativi della sua vita.
Poiché il massimo della sua energia, Bazlen lo mise nelle consulenze editoriali: dalla scoperta di Svevo, che avvenne grazie ad un Montale incalzato da Bazlen, ai rapporti con Einaudi e Adelphi.
Grazie all’ingegno di Bazlen, arrivarono in Italia libri cruciali, che mancavano al nostro patrimonio culturale: dalla Mitteleuropa all’Oriente; senza dimenticare Nietzsche, la cui pubblicazione dell’edizione critica per Adelphi (nonché per la Germania, la Francia e il Giappone), si deve a Giorgio Colli e al suo sodale Mazzino Montinari.
Un secondo gradino di comprensione dell’universo di Bazlen ci viene dalle testimonianze di Montale e, soprattutto, da due poesie dedicate all’amico: “Lettera a Bobi”, contenuta in “Diario del ’71 e del ‘72”; “La madre di Bobi”, compresa nelle “Poesie disperse”.
A questo stesso piano – quello del tributo che grandi scrittori del Novecento italiano hanno rivolto a Bazlen – appartiene, insieme alle poesie di Montale, l’omaggio resogli da Italo Calvino e intitolato “Ricordo di Bobi Bazlen” (ora compreso nella raccolta dei “Saggi” di Calvino, pubblicati nei Meridiani Mondadori).
Giungiamo, dunque, ad un terzo gradino di comprensione. Le interpretazioni di intellettuali e scrittori contemporanei. Qui bisogna ricordare Daniele Del Giudice e Roberto Calasso. Di Del Giudice abbiamo “Lo stadio di Wimbledon” (Einaudi 1983), il suo primo romanzo dedicato interamente a Bazlen (da cui è stato tratto anche un film).
Del secondo, l’adorabile libriccino dal titolo “Bobi”, uscito nel 2021 per Adelphi, contemporaneamente alla morte di Calasso, che giustamente sottolinea come l’autentico problema di Bazlen fosse quello di diventare vivo.
Una figura centrale del panorama letterario italiano, muore a Milano – come ci mostra il bel documentario di Penco – in un albergo di terza categoria, dopo essere stato sfrattato dalla sua amata abitazione in via Margutta, anni prima. La mattina dopo lo aspettava l’amico Montale – a nostro avviso, il più grande poeta italiano dai tempi di Leopardi – per un ulteriore incontro di fraterna amicizia. Questo era Roberto Bazlen.
L’ultimo sacerdote delfico
Anche per Giorgio Colli, vale la frase che Calasso ha scritto per Bazlen. Ossia che è difficile capire cosa pensasse fino in fondo, ma che la frequentazione dei suoi libri costringe, inevitabilmente, a pensare.
Nello splendido documentario di M. Misul e M. Colli – in cui la lettura dei passi di Colli è affidata a Carmelo Bene – viene ricordato il plauso di Benedetto Croce al giovanile saggio di Colli dal titolo “Platone politico” (Adelphi), l’apprezzamento di G. Einaudi, di P. Boringhieri, nonché di grecisti di vaglia come D. Del Corno, G. Pugliese Carratelli e F. Adorno.
Oltre a notevoli edizioni dell’“Organon” di Aristotele e della “Critica della ragione pura” di Kant, il lavoro di Colli ha avuto due fuochi. Il pensiero dei presocratici, del giovane Platone e di Aristotele. Per quanto concerne l’epoca moderna e contemporanea, le filosofie di Schopenhauer e Nietzsche, con notevoli incursioni in Goethe e Hölderlin, nonché in Heidegger, seppure questo nome compaia assai raramente nei riferimenti espliciti della sua opera.
Colli detestava il cristianesimo (analogamente a Nietzsche) e l’idealismo speculativo di Fichte, Schelling e Hegel (in linea con Schopenhauer), amava Machiavelli, Bruno, Spinoza e Voltaire. Aveva un grande rispetto e stima per uno storico come Jacob Burckhardt.
Rifiutava, senza esitazioni, filosofi come Croce e Gentile. Tra le maggiori imprese critiche ed editoriali legate al suo nome, si accennava, vi è l’edizione critica di tutto Nietzsche per Adelphi (compresi i Frammenti postumi e l’Epistolario), condotta con Mazzino Montinari e pubblicata anche in Germania, Francia e Giappone.
Ciò emerge con chiarezza dai suoi splendidi libri. Dei quali, “La natura ama nascondersi” (1948, Adelphi), “Filosofia dell’espressione” (1969, Adelphi), “La nascita della filosofia” (1975, Adelphi), “La sapienza greca I-III” (Adelphi, 1977-1980), sono dedicati all’antichissimo pensiero greco.
I Presocratici, per Colli, erano sapienti. Viceversa, “Dopo Nietzsche” (1974, Adelphi), “Scritti su Nietzsche” (1980, postumo, Adelphi), “Per un’enciclopedia di autori classici” (1983, postumo, Adelphi), sono dedicati alla cultura moderna.
Oltre alle ulteriori pubblicazioni degli inediti e delle lezioni (per cui basta consultare il catalogo Adelphi), merita di essere menzionata “La ragione errabonda. Quaderni postumi” (1982, Adelphi), curata dal figlio Enrico Colli (come gli altri lavori postumi), che ingloba tanto il lavoro critico di Colli sul pensiero antico che quello sul pensiero moderno.
Nel documentario di M. Misul e M. Colli, ad un certo punto, si vede un vecchio filmato, in cui Colli accenna una breve corsa nel giardino di casa sua. È la corsa di un vincitore, di uno che ha governato la trama molteplice, complessa, estremamente rischiosa dell’apparenza. Colli con i suoi amati Greci, Bazlen con la sapienza orientale che tanto lo ispirava, ci mostrano una via per il futuro. Una via ulteriore, rispetto alla globalizzazione e all’intelligenza artificiale…