US Open: il giorno in cui Djokovic non andò sulla luna
Novak Djokovic voleva andare sulla luna vincendo in America, ma il giorno della finale dello US Open, per lui l’America era lontana
Per Novak Djokovic doveva essere il giorno della consacrazione: il tennista più forte di tutti i tempi, l’unico a raggiungere la vittoria in tutti e quattro i tornei dello Slam nei tempi moderni. Ma il sogno di Grande Slam si è da subito trasformato in tragedia greca, in beffa pirandelliana dal finale kafkiano con la metamorfosi del cannibale serbo da cyborg perfetto a fragile essere umano.
Drammi sportivi e umani
A torto si tende a separare i drammi sportivi da quelli ben più “concreti” della vita “normale”. Questa separazione non è ammessa per tutti coloro che decidono o si trovano per scelta altrui inseguite fin dall’ età adolescenziale a dover vivere di Sport in cui conta solo e sempre vincere e non partecipare.
In realtà ogni competizione sportiva rappresenta la vita, racchiudendo al proprio interno tutte quelle fasi, quelle situazioni, quei traumi, quelle gioie e quei dolori che compongono quell’indefinito periodo che parte dalla nascita fino alla morte.
La domanda è: perché Djokovic ha perso?
O meglio: perché ha avuto paura? Semplicemente perché si è spinto oltre. Ha voluto esplorare un universo mai raggiunto, si è posto una meta sconosciuta, troppo complessa e priva di riferimenti. Soprattutto lo ha dovuto fare in solitudine, senza nessun supporto logistico, senza l’esperienza di chi aveva potuto provarci prima. Né poteva bastare lo sgangherato tifo calcistico degli americani, che mai lo avevano amato fino a quel momento e che erano solo desiderosi di vivere la luce riflessa di un evento storico. Ho visto giocare dal vivo Djokovic oltre un decennio fa, sui campi di allenamento del Foro Italico, durante gli Internazionali d’Italia.
Del campione serbo, mi aveva colpito non certo lo stile, né la potenza dei colpi, né la fantasia del gioco, eppure osservandolo nel relax dell’allenamento potevi dire soltanto una cosa: perfetto, sempre. Ogni suo colpo, nelle infinite ripetizioni di uno scambio, risultava veicolato su un binario preciso, come disegnato da un computer, senza impurità create dalla mano umana. Questa perfezione gli ha permesso di vincere più di chiunque altro ma non gli ha consentito di fare l’impresa suprema, in cui solo una sana follia gli avrebbe permesso di vincere la tensione (termine molto in uso tra gli agonisti dello sport che non vogliono mai nominare il più appropriato termine di paura).
Ha perso malamente per paura
Ed è così che Novak Djokovic, il giorno del Grande Slam lo ha vissuto nella sua isola di essere umano, perdendo malamente in soli tre set la partita che lo avrebbe reso unico e ancora più solo nell’Olimpo dei semidei dello Sport, sopraffatto da se stesso e beffato da un avversario che aveva sempre battuto nelle altre importanti finali. Un avversario, Daniil Medvedev, comunque un campione, che è l’antitesi della perfezione, della logica tennistica, il cui gesto da “autodidatta” diventa colpo di genio irriverente per chi ha fatto della perfezione il mantra di un’esistenza.
Anche l’esultanza del russo è apparsa irriverente, quasi oltraggiosa di fronte alle lacrime dell’uomo Djokovic ed un po’ anche per tutti coloro che vivono di sport sognando palcoscenici anche molto meno importanti di uno US Open: un tuffo sul fianco ad appoggiarsi artificiosamente sul “cemento” di Flushing Meadows con la linguaccia beffarda di chi ha fatto uno scherzo alla storia. Un’esultanza inconsueta ma perfettamente in linea con il “tennis” tanto assurdo quanto efficace del numero due del mondo.
Novak Djokovic voleva andare sulla luna, per farlo doveva vincere in America, ma il giorno della finale dello US Open, per lui l’America era lontana……dall’altra parte della luna.