Usa, polizia spara a 13enne autistico: la “Police Brutality” cresce anche in Italia?
Los Angeles, polizia spara a 13enne autistico: quando le forze dell’ordine diventano lo specchio di una società discriminatoria e violenta
Los Angeles: ragazzo autistico di 13 anni ha una crisi e dà in escandescenza. La madre, in preda al panico, chiama il 911. La polizia arrivata sul posto e spara al ragazzo: diversi colpi di arma da fuoco alla spalla, all’intestino, alla vescica e alla caviglia.
Usa, polizia spara a 13enne autistico
Sotto il mirino della polizia (letteralmente) è Linden Cameron, un ragazzo di 13 anni con diagnosi di autismo. La madre, Golda Barton, ha ripreso a lavorare dopo un anno di stasi e il ragazzino, appena tornata dal lavoro, ha avuto una crisi. Crisi alla quale la madre ha risposto con la volontà di portarlo in ospedale, chiamando per questo i soccorsi.
“Gliel’ho detto ai poliziotti…guardate, è disarmato, non ha nulla, si è solo arrabbiato e ha cominciato a urlare, è un ragazzino, sta cercando di ottenere attenzione”, queste le parole della donna a una tv locale. La polizia si è giustificata riferendo la “minaccia di un’arma”, arma che però non è stata trovata.
Usa, 13enne autistico colpito da forze dell’ordine, tra abuso di potere e superficialità
C’è da dire che la polizia statunitense spesso è stata artefice e protagonista di episodi tragici che tanto ricordano questo del piccolo Linden.
Un esempio eclatante è dato dall’omicidio di George Floyd che tanto ha fatto parlare di sé negli ultimi mesi.
La popolazione statunitense, infatti, è tra quelle con maggior tasso di criminalità e devianza endemica. Questa devianza si estende anche ai corpi di polizia, tanto da arrivare a parlare di police brutality.
Le forze dell’ordine degli Stati Uniti, hanno una storia macchiata di innumerevoli violenze. Dagli abusi psicologici, abusi di potere, corruzione ecc. e buona parte di questi crimini si sfogano contro le minoranze (specie afroamericane e ispaniche), da sempre vittime di discriminazione.
La Costituzione, il cui secondo emendamento dà il diritto di possedere armi alla popolazione civile e non, non fa che legittimare la loro volontà di usare il pugno duro contro la criminalità. Rendendo però la polizia stessa “criminale”.
Violenza che genera violenza: il fenomeno della “police brutality”
In un Paese in cui le pistole sono facilmente reperibili anche nei supermercati è abbastanza scontato che cadano nelle mani sbagliate. E di conseguenza che si incrementi il tasso di criminalità, alla quale la polizia non fa che rispondere con altra violenza.
La “police brutality”, letteralmente brutalità poliziesca, viene spiegata soprattutto da fattori culturali. Questa cultura è infatti caratterizzata da un razzismo profondo che tende a etichettare (e stigmatizzare) ogni tipo di diversità e minoranza, supportata dal benestare della società e delle istituzioni.
Già durante la schiavitù e la Ricostruzione (1863-1877), la polizia si prodigò per reprimere la volontà e il desiderio di quegli afroamericani che tanto agognavano l’emancipazione.
Negli ultimi anni poi si è assistito all’incarcerazione di migliaia di latinos.
Segno di una cultura razzista che ha come leader le forze dell’ordine, le quali, piuttosto che garantire i diritti e proteggere le minoranze, non fanno che ghettizzarle e discriminarle ancor di più.
La polizia diviene dunque il riflesso della più ampia società in cui si trova, assimilando trend culturali caratterizzati da odio, repressione e discriminazione.
Affinché cambi questo modus operandi, occorrono dei cambiamenti radicali della società e della cultura stessa statunitense. Sebbene venga considerato un diritto di tutti quello di usare le armi per la propria legittima difesa, spesso questa più che difesa si trasforma in attacco e non fa che alimentare il circolo vizioso di odio e violenza a cui non si riesce a porre fine.