Variante inglese, da Londra due bombe su origine del Covid e Green pass
Il Governo Johnson non imporrà il certificato grazie all’alto numero di vaccinati. E gli scienziati che hanno stroncato l’idea della fuga dal laboratorio sono legati a Pechino
Se qualche mese fa la variante inglese era piombata nelle nostre vite con la delicatezza di un elefante in cristalleria, ora l’espressione può assumere un significato diverso. Una mutazione (è il caso di dirlo) legata da un lato alle disposizioni del Governo di Londra, che ha liquidato qualunque ipotesi di Green pass. E dall’altro alla scienza, di cui si può certamente affermare, come facevano gli antichi Romani riguardo alla verità, che “soffre spesso ma non muore mai”.
La nuova “variante inglese”
«Sono lieto di poter dire che non andremo avanti» sulla strada del certificato verde. Così Sajid Javid, Ministro della Salute britannico, ha annunciato con soddisfazione che l’esecutivo conservatore guidato da Boris Johnson rinunciava a imporre il passaporto sanitario.
Merito del successo della campagna vaccinale Oltremanica, dove più dell’81% dell’intera popolazione over 16 è immunizzata e il 90% ha ricevuto la prima dose. E d’altronde gli Stati che hanno introdotto il Green pass puntavano a incoraggiare le inoculazioni, come ha osservato Javid. Il quale ha anche puntualizzato che non gli è «mai piaciuta l’idea di dire alle persone “devi mostrare i documenti” per fare un’attività quotidiana». Che, en passant, è uno degli aspetti che secondo vari giuristi potrebbero configurare la certificazione anti-Covid come incostituzionale.
Una bella lezione anche per noi, e in particolare per Roberto Speranza, Ministro nomen omen della Sanità italiana. Che qualche giorno fa faceva puro allarmismo dichiarando che «potremmo trovarci in difficoltà anche con più del 90% di vaccinati». E venendo seccamente smentito da Paolo Rossi, pediatra dell’ospedale Bambino Gesù di Roma, secondo cui «con l’85% di vaccinati il Green pass non serve».
In effetti, la Gran Bretagna ha mostrato che un’altra via è possibile – la nuova “variante inglese”, in un certo senso. E non è l’unica “bomba” lanciata dalla perfida Albione.
Ombre cinesi
Il mondo anglosassone è uso considerare il giornalismo come il cane da guardia del potere (anche se spesso ne diventa il cagnolino da compagnia). Ruolo che, quasi un anno fa, aveva ricoperto il New York Times, autore di un’inchiesta volta a portare alla luce gli insabbiamenti “pandemici” operati dalla Cina. Dieci mesi dopo, il testimone è passato al Telegraph, che ha svelato altri inquietanti altarini in salsa orientale.
Tutto partì nel febbraio 2020, da una lettera che 27 scienziati pubblicarono sulla prestigiosa rivista The Lancet. Una lettera in cui si condannavano «fortemente le teorie cospirative che suggeriscono che il COVID-19 non abbia un’origine naturale».
Questo testo ha praticamente stroncato l’intero dibattito scientifico attorno all’ipotesi che il coronavirus fosse fuoriuscito dall’ormai celeberrimo laboratorio di Wuhan. E adesso il quotidiano londinese ha scoperto che, dei 27 firmatari, ben 26 sono legati (a livello di ricerca o di finanziamento) con Pechino. E alcuni hanno delle connessioni dirette proprio con l’Istituto di virologia di Wuhan.
Questo, sia chiaro, non significa necessariamente che il SARS-CoV-2 sia stato davvero creato artificialmente e diffuso (magari per errore) dagli studiosi del Paese del Dragone. Però solleva ulteriori ombre sulla gestione dell’epidemia. Ombre cinesi, ça va sans dire.