Video shock della funivia del Mottarone. Certe immagini vanno mostrate?
Spettacolarizzare il dolore può voler dire disumanizzare coloro che lo hanno vissuto
Ancora una volta è il web e la condivisione di video e immagini forti, a farci interrogare sulla necessità o meno di rendere pubblico il contenuto drammatico e scioccante di certe scene. Subito dopo la messa in onda sul tg3 del video riguardante l’incidente della funivia sul Mattarone, è iniziato il solito tam tam di condivisione sui social della drammatica sequenza dell’incidente.
Il video shock del dramma della funivia Mottarone
Il video in questione è ripreso dalle telecamere a circuito chiuso dell’impianto. Venne sequestrato nell’immediato dai carabinieri e in qualche modo è arrivato alla redazione RAI, e in esso si vedono gli ultimi istanti della sciagura.
Un video nel quale si possono osservare alcuni dei passeggeri all’interno della cabinovia mentre la stessa si apprestava ad entrare nella stazione a monte dell’impianto e poi l’improvvisa rottura del cavo di trazione e la conseguente drammatica corsa all’indietro fino al pilone dove la cabina a grande velocità viene sbalzata a terra.
Funivia Mottarone, queste immagini agiscono sul nostro inconscio
Immagini forti che testimoniano qualcosa che va oltre la dinamica dell’accaduto come solitamente succede in questo tipo di contenuti e inevitabilmente hanno conseguenze sulla nostra psiche. Per meglio comprendere il fenomeno dobbiamo innanzitutto partire dal fatto che Il nostro cervello opera elaborazioni consce e altre inconsce. O meglio, ognuno di noi dalla visione di certi filmati o certe immagini sviluppa processi di analisi propriamente mnestici e altri di natura emozionale.
Entrambe i processi influiscono fortemente sulla persona che difronte alla straordinarietà di un’esperienza, la elabora, immagazzina e ne conserva i diversi aspetto.
“Affordance”, invito all’uso
Il fenomeno della condivisione e delle spinte sottostanti possono trovare spiegazione nell’ “affordance”, cioè l’ opportunità di scelta nel vivere un’esperienza emozionale nel caso specifico caratterizzata da tre diverse dimensioni operanti di base, lo shock (repulsione), la sorpresa (attrazione) e la sicurezza che può o meno riequilibrare le nostre risposte emotive.
Nella scelta di vedere il contenuto di un video che ripropone immagini di estrema drammaticità o violenza, entrano sempre in gioco questo tipo di meccanismi attraverso i quali si va a sollecitare la dimensione edonica dell’individuo e le sensazioni di attrazione e repulsione da una parte, quelle di sicurezza attraverso risposte di attivazione o inattivazione dall’altra ( Riva, 2014).
Se ne deduce che il cyberspazio come nuovo luogo di relazione, si offre in maniera ottimale a tali sollecitazioni, godendo fra l’altro di una assoluta ampiezza e libertà d’azione.
Ma cosa comporta tutto questo?
Dal punto di vista psicologico il risultato più evidente lo si ha rispetto alla risposta disincantata che l’utente finisce con l’adottare. Per rendere bene l’idea possiamo rifarci un po’ a quello che avviene con l’utilizzo smodato di alcuni videogiochi di guerra. La dimensione virtuale finisce per sovrapporsi a quella reale, rendendo quest’ultima priva del giusto investimento emotivo, cosi da portare molti autori di psicologia sociale, a definire la nuova generazione digitale come “analfabeta emozionale”.
Sindrome da redistribuzione
Un altro aspetto importante da considerare è quello della spinta o meno a condividere l’oggetto in questione.
A differenza del tradizionale modello offerto dai media come radio e televisione, l’interazione digitale offre la possibilità di poter scegliere o meno di usufruire di certi contenuti e quindi di poter comunicare in maniera sia sincrona ( in tempo reale attraverso l’online), che asincrona (differita nel tempo).
Questo pone la comunicazione su relazioni reciproche fondate su condizioni sia oggettive (applicazioni condivise, linguaggi, piattaforme social), sia soggettive (atteggiamenti, interessi, conoscenze, motivazioni), (Verrastro, 2004).
Quest’ultima componente diventa preponderante rispetto all’analisi del fenomeno in questione. È infatti sempre più diffusa la pratica della condivisione dell’oggetto in questione tanto da creare una vera e propria “sindrome da ridistribuzione”. Redistribuisco sui vari contatti l’esperienza della visione di quel determinato contenuto per creare un presupposto di conoscenza e vissuto che in tal modo ci appartiene.
Ma tutto questo dove ci sta portando?
Una nuova forma di sensazionalismo pervade l’essere umano e la sua organizzazione sociale. Il bisogno di dover vivere continuamente forti emozioni e poterle in qualche modo sperimentare comodamente davanti ad uno schermo, nella cosiddetta “zona comfort ” che lo smartphone ci garantisce, sta operando enormi trasformazioni sulla percezione.
Il rischio di spettacolarizzare il dolore e disumanizzare chi lo vive
La frequenza di certe riproposizioni finiscono col ridimensionare l’evento stesso, influenzando anche il relativo peso di sofferenza umana che si cela dietro, fino ad arrivare alla disumanizzazione degli sfortunati protagonisti. Ecco il costo della continua smania di spettacolarizzazione.
Il bisogno edonistico dell’uomo moderno sul quale ormai tutti i massmedia fanno leva pur di portare a sé nuovi spettatori. Dovremmo forse rivedere qualcosa in merito a tutto questo.
Dovremmo forse farlo ripartendo dal muro di giocatori danesi schierati in circolo a difendere il proprio compagno Eriksen mentre veniva rianimato in campo. E così ridefinire i confini nel rispetto del dolore umano e della sofferenza di un vissuto che troppo facilmente diviene preda di pulsioni disfunzionali e oggetto di spettacolarizzazione.
Il tasto “condividi” è solo un tasto, a conferirgli un grande significato può essere il movimento del nostro dito. Facciamo in modo di restare noi a decidere se pigiarlo o meno.