Zona rossa a Bergamo, il Premier Conte tre ore davanti ai Pm
La Procura orobica ha sentito anche i Ministri Lamorgese e Speranza nell’ambito dello scontro con la Regione Lombardia. Emblematico di una certa “libido del capro espiatorio”
Ha ormai assunto contorni nazionali il caso della creazione della zona rossa a Bergamo in piena emergenza coronavirus. Un po’ perché c’è chi lo sta cavalcando a livello mediatico, molto per la decisione della Procura orobica di elevarlo alle quote di Roma. E anche perché questa vicenda, in fondo, può dirci qualcosa su noi stessi, sulla nostra Weltanschauung come popolo italiano.
Zona rossa a Bergamo, Conte in Procura
Probabilmente il bi-Premier Giuseppe Conte sperava in un fine settimana diverso. Invece, incassato il diniego dell’opposizione di centrodestra riguardo alla partecipazione alla giornata inaugurale degli Stati Generali, è arrivata un’altra convocazione. Di cui il fu Avvocato del popolo, stavolta, era il destinatario.
I mittenti erano i Pm di Bergamo che indagano sulla mancata istituzione della zona rossa a Bergamo, o meglio nelle città di Alzano e Nembro. In precedenza, i magistrati avevano già ascoltato Attilio Fontana e Giulio Gallera, rispettivamente Governatore e assessore alla Sanità della Lombardia. Oltre a Silvio Brusaferro, presidente dell’Istituto Superiore di Sanità e del Comitato Tecnico-Scientifico.
Il Signor Frattanto è stato sentito come persona informata sui fatti, al pari del Ministro dell’Interno Luciana Lamorgese e del titolare della Salute Roberto Speranza. La sua audizione, svoltasi a Palazzo Chigi e durata tre ore, aveva lo scopo di chiarire cosa accadde tra il 3 e il 9 marzo. I sei giorni fatali in cui il focolaio indigeno del Covid-19 è diventato il più letale d’Europa.
La mancata creazione della zona rossa a Bergamo
La vicenda ha avuto inizio a fine febbraio, quando il virus cominciò a diffondersi nella Bergamasca. Il Pirellone lanciò l’allerta, senza però presentare alcuna richiesta formale per far dichiarare zona rossa Alzano e Nembro. Fu il Comitato Tecnico-Scientifico, il 3 marzo, a proporre di adottare per le due cittadine le stesse misure restrittive già in vigore a Codogno e Vo’.
Suggerimento inascoltato, visto che due giorni dopo, il 5 marzo, il numero uno del CTS Brusaferro doveva tornare a sollecitare l’isolamento della Val Seriana. Quello stesso giorno vennero mobilitati l’esercito e le forze dell’ordine, che si recarono nella provincia orobica per innalzare un cordone sanitario. È il motivo dell’interrogatorio della titolare del Viminale, cui compete, in accordo con la Prefettura, la decisione su quali reparti debbano sorvegliare le aree interdette.
L’ordine di chiusura, però, non arrivò mai. L’esecutivo, infatti, prese tempo, perché stava maturando «una soluzione ben più rigorosa», quella di estendere la misura all’intera Regione. Soluzione poi attuata con il provvedimento firmato l’8 marzo ed entrato in vigore il 9.
Lo scontro tra Governo e Regione Lombardia
Com’è noto, la provincia di Bergamo ha registrato una vera ecatombe, forse anche a causa di quei sei giorni di ritardo. È ciò che gli inquirenti vogliono capire, anche se al momento l’inchiesta è senza indagati e senza ipotesi di reato. Se però si appurasse che il mancato intervento ha causato l’aumento dei contagi, la Procura orobica potrebbe procedere per epidemia colposa.
Contro chi, è ancora tutto da capire – ed è la ragione più profonda dello scontro istituzionale in atto da mesi. Con Giuseppi che ha sempre affermato che la Lombardia potesse creare zone rosse in piena autonomia, come in seguito avrebbero fatto altre Regioni. E Fontana a replicare che l’onere spettasse esclusivamente a Roma. Idea che sembra condivisa dalla Procuratrice facente funzioni di Bergamo, Maria Cristina Rota, secondo cui «da quel che ci risulta è una decisione del Governo».
Il Presidente del Consiglio si è comunque detto sereno, benché vari organi di informazione ne abbiano sottolineato la preoccupazione per un possibile avviso di garanzia. «Ho agito in scienza e coscienza» ha dichiarato, difendendo quelle che sono state «decisioni difficili», per le quali «non avevamo il manuale». Quanto a questo, ci sentiamo di concordare – perlomeno nel merito.
È infatti indubbio che le istituzioni si siano trovate a fronteggiare una situazione emergenziale e fuori dall’ordinario, che avrebbe creato difficoltà anche a dei veri esperti. Per questo il rimpallo delle responsabilità ha un che di stucchevole, anche se umanamente può essere comprensibile. Così com’è comprensibile che i parenti delle vittime auspichino che si faccia luce sulle circostanze che hanno portato al decesso dei propri cari. E, se qualcuno ha sbagliato, è ovviamente giusto che paghi.
La libido del capro espiatorio
In qualche modo, comunque, questo atteggiamento è emblematico di una forma mentis tipica dell’italiano medio,che si potrebbe definire “libido del capro espiatorio”. Sarebbe la tendenza a voler trovare a ogni costo un colpevole per gli eventi negativi – anche eventi molto meno tragici di quelli in oggetto. Verosimilmente, una diretta conseguenza del fatto che siamo 60 milioni di giudici e allenatori sportivi – oltre che della pervasività dei mezzi di comunicazione di massa.
Di nuovo, è un atteggiamento umanamente comprensibile, che però può scontrarsi con la realtà, perché non sempre quanto ci accade è colpa di qualcun altro. A parte per i manettari dattilografi, usi a crearsi preventivamente un teorema giudiziario che poi perseguono oltre i confini del ridicolo.
Eppure, sostenevano gli antichi: “Veritatem laborare nimis saepe aiunt, extingui numquam”. Si dice che la verità soffra spesso, ma non muoia mai. Malgrado il Travaglio.